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Il rapporto tra lo scrivere e il vivere è l'enigma che Philip Roth si è posto il compito di scrutare nei suoi romanzi. Roth ed i suoi principali alter-ego vivono da più di cinquantanni a cavallo tra secondo e terzo millennio. Ebrei d'America, hanno sulle spalle la diaspora, la Shoà, il proibizionismo e il sogno del New Deal, le tentazioni autoritarie dei Lindbergh e dei Nixon. Hanno vissuto il maccartismo e il segregazionismo, la nuova cultura e la rivoluzione sessuale, le guerre di Corea e del Vietnam e le due Tempeste nel deserto. Hanno negli occhi il lampo dei Boeing contro le Torri, il rogo dell'11 settembre e il giuramento del primo Presidente afro-americano. E mutato il paradigma del desiderio in questi decenni concitati? Come dà conto Roth di questo cambiamento? Per lui il desiderio, per quanto pieno, tende a non aver mai soddisfazione finale: pur sospinto al colmo, non incontra mai un'akmé. E il mantenimento della dimensione desiderante è ciò che preserva la divisione nel soggetto, permettendogli di restare sano: il desiderio ci consente infatti di restare soggetti divisi e di sfuggire così alla pazzia. Controvita è la parola cui Roth affida questa contraddittorietà del vivere. Ogni aspetto della quotidianità può trovare legittimamente un opposto. I racconti di Philip Roth mostrano in azione questa dinamica, incarnandola - è il caso di dirlo - nelle storie individuali dell'uomo post-storico, ambivalente nel suo procedere tra vita e controvita. (John M. Coetzee). Introduzione di Antonio Monida